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Violenza assistita, una diversa ma pur sempre “forma di abuso”

La violenza assistita di cui sono vittime i bambini può avere gravissime conseguenze provocando una grave instabilità emozionale che si traduce in molteplici sentimenti negativi, come ansia, paura, angoscia, senso di colpa, insicurezza.

Può inoltre provocare disturbi del comportamento, tra cui l’isolamento, la depressione, l’impulsività e l’aggressività nonchè gravi disturbi alimentari.

Ma che cosa significa assistere alla violenza? 

Guardare, ascoltare, vivere l’angoscia, esserne investiti, contagiati e sovrastati senza poter far nulla. Significa esporre un bambino a qualsiasi forma di maltrattamento, compiuto attraverso atti di violenza fisica, verbale, psicologica, sessuale ed economica, su figure di riferimento o su altre figure affettivamente significative all’interno di ambienti domestici, familiari o comunitari, come spesso accade ai bambini stranieri. Molto spesso questo fenomeno è sottovalutato e non si dà il giusto peso alle sue conseguenze. Dunque in un paese sviluppato, quale dovrebbe essere il nostro, è necessario strutturare una strategia di contrasto della violenza che si basi su tre pilastri fondamentali ovvero la prevenzione, attraverso percorsi educativi, laboratori esperienziali che abbiano l’obiettivo di mettere in discussione i modelli di relazione convenzionali, gli stereotipi di genere e i meccanismi di minimizzazione della violenza; l’emersione, istituendo all’interno delle scuole una figura che abbia le competenze per riconoscere e contrastare le forme di violenza assistita subite dai bambini trovando la collaborazione con i servizi sociali e le associazioni del territorio di riferimento; la forma di protezione che consenta l’immediata presa in carico del minore, senza attendere la conclusione degli iter giudiziari.  Un fenomeno ancora sommerso, quasi “invisibile”, contraddistinto da segnali plurimi, i cui effetti possono essere devastanti sullo sviluppo fisico, cognitivo e comportamentale dei bambini.

In tale contesto si inserisce anche la violenza sui minori stranieri provenienti da un mondo meno fortunato e che sentono su di loro il peso degli sguardi, della discriminazione e della paura nei loro confronti. Come ci suggerisce il Consiglio Nazionale degli ordini dei psicologi va ricordato che tutti i bambini percepiscono la realtà dinanzi a loro con l’armonia dei sentimenti semplici, su cui plasmano il loro sviluppo emozionale. L’infanzia infatti non ha nazionalità ma questo è un concetto spesso astratto e dimenticato.

L’esperienza della sterilità e le sue conseguenze psicologiche.

Nel presente articolo vorrei soffermarmi sulle conseguenze psicologiche che possono derivare da una diagnosi di sterilità, termine con il quale si intende la condizione fisica permanente che colpisce uno o entrambi i coniugi e che non rende possibile la procreazione.

Le reazioni dell’uomo e quelle della donna dinanzi ad una diagnosi del genere sono diverse proprio perché diverse sono le dinamiche interne proprie di ogni genere. La donna, che fin dall’infanzia ha coltivato nelle sue fantasie più profonde l’idea di avere un bambino, di fronte all’ostacolo procreativo sente di essere deprivata di una parte essenziale di sé subendo una ferita nella propria identità che va a colpire la sua area psico-emotiva e culturale come un marchio, un segno di imperfezione o di malformazione di cui si sente colpevole. Un altro elemento importante da considerare è il contesto sociale; la donna sterile spesso si accompagna ad una rete di amiche che con il tempo sperimentano la gravidanza e quindi diventando madri riducono gli spazi e i momenti di condivisone lasciandola senza il giusto supporto emotivo. Nell’uomo invece la sterilità viene percepita come un “verdetto” improvviso e inaspettato che può determinare una reazione depressiva, un appiattimento ideativo ed emotivo se non addirittura una regressione infantile con la moglie. Vengono seriamente minacciate la potenza sessuale, da sempre associata alla capacità fecondativa e l’identità personale e sociale. I sentimenti prevalenti al momento della scoperta di questa verità sono di vergogna, di grave imbarazzo rispetto all’esterno a volte con notevole restrizione dell’ambito delle relazioni sociali, senso di colpa molto forte verso la compagna e la propria famiglia d’origine accompagnati a un senso di perdita e di fallimento.

La sterilità inoltre colpisce la coppia in una delle sue caratteristiche fondamentali in quanto anche se il contesto socioculturale del mondo occidentale è cambiato e la finalità elettiva di un rapporto risiede perlopiù nell’appagamento reciproco e nel dialogo amoroso, il figlio continua a rivestire un ruolo fondamentale, soprattutto nel momento in cui è avvertito come una mancanza. La coppia si trova quindi ad affrontare una vera e propria “crisi di vita” che coinvolge tanto il singolo quanto la coppia dando origine a stress, frustrazione, inadeguatezza e senso di perdita.

A livello psichico la coppia che si trova a dover affrontare tale situazione ha sicuramente bisogno di un supporto terapeutico che la aiuti ad accettare il problema, far fronte alle pressioni sociali, elaborare il lutto per la perdita dell’Io ideale e della propria immagine corporea.

 

Perché abbiamo paura del diverso?

Perché abbiamo paura del diverso? Razzismo, pregiudizi e persecuzioni partono da questa domanda. I pregiudizi non si basano sui fatti ma sono espressione di opinioni comuni che non cambiano anche se i fatti dicono altro. Si tratta di un atteggiamento di chiusura e di rifiuto nei confronti di chi appartiene ad un gruppo che non è il nostro.

Avevamo promesso di non ripetere episodi di razzismo e persecuzioni, ma non è stato cosi. Forse è proprio vero che l’andamento della storia è ciclico e non lineare, poiché se non fosse cosi avremmo dovuto imparare dai nostri errori anziché ripeterli. Non siamo diversi dai tedeschi dei tempi dell’olocausto quando acclamiamo la chiusura dei porti e sosteniamo determinate posizioni. E perché non siamo restii nei confronti degli americani?  In fondo anche loro vengono da un altro continente solo che probabilmente li riteniamo più potenti, più avanti rispetto a noi, gente da cui trarre insegnamenti. Così scattano gli stereotipi: i “neri” violentano, rubano, trafficano droga, uccidono.

Allora è opportuno fermarsi un attimo a riflettere sul fatto che spesso l’apparenza inganna e che i veri stupratori, trafficanti o assassini sono in giacca e cravatta e, siccome potenti, manipolano la società inculcando stereotipi che mettono in cattiva luce i più deboli, scaricandogli addosso i loro peccati.

Dobbiamo essere razionali nell’ affermare e credere che gesti positivi e crimini possono essere compiuti indistintamente da qualsiasi persona che, in quanto tale, aldilà del colore della pelle, agisce in base alla propria coscienza.

Ogni situazione, ogni comportamento va osservato quindi in maniera oggettiva ma spesso abbiamo la vista annebbiata dalla rabbia, una rabbia che, con il giusto aiuto di un esperto, possiamo sconfiggere…del resto non siamo mai soli nella vita, non è così?